26 Novembre 1980 – Pertini agli italiani

Il drammatico j’accuse di Pertini dopo il terremoto in Irpinia

di Claudio Mazzone

Il 25 novembre del 1980 Il Presidente della Repubblica Sandro Pertini rientra al Quirinale dopo essersi recato nei luoghi distrutti dal sisma che ha sconvolto l’Irpina 48 ore prima. Pertini ha la pelle dura, ne ha viste di tragedie, ne ha contati di morti nella sua vita. Ha visto le guerre, le ha combattute, ha vissuto il carcere e le violenze fasciste, non è uomo che si lascia impressionare, è abituato all’orrore. Ma quel contatto con quella folla di sopravvissuti, in quella polvere che si mischiava al lutto, lo feriscono, perché si rende conto dell’assenza dello Stato, dell'incapacità delle istituzioni, del fallimento dell’Italia. 
Il Presidente partigiano sa che deve fare qualcosa, che non può tacere, sa che in quel momento ha il dovere di riconsegnare dignità allo Stato soprattutto per ridare speranze a quei tanti disperati che aveva incontrato e che gli avevano chiesto aiuto. 

Pertini in Irpinia

Il 26 novembre Il Presidente della Repubblica fa un discorso a reti unificate. Pochi minuti che entrano nella storia del nostro Paese. Non si erano mai sentite in tv parole così dure, così nette e così vere. Non si era mai visto un volto dello stato che finalmente condannava l’inerzia e la corruzione di un sistema. Pertini chiederà alle istituzioni di fare ciò che devono di non ripetere la vicenda del Belice e pone domande che hanno un peso enorme mettendo a nudo per sempre un sistema che stava marcendo. °Dove è andato a finire questo denaro? Chi è che ha speculato su questa disgrazia del Belice? E se vi è qualcuno che ha speculato, io chiedo: costui è in carcere, come dovrebbe essere in carcere?

Ci piacerebbe pensare che dopo queste parole le cose avessero preso un’altra piega, ma non è andata così. I terremotati dell’Irpinia vivranno la stessa tragedia di quelli del Belice, i fondi stanziati e assegnati ancora oggi, si perderanno in rivoli di corruttela e inefficienza, la ricostruzione sarà lentissima e creerà più danni che prospettive. La storia si ripresentò uguale, con glie stessi orrendi speculatori. 

Eppure quel discorso, quel “drammatico j’accuse” è ancora oggi utile per mostrare il volto onesto, pulito, forte e dignitoso degli italiani. 

"Italiane e italiani, sono tornato ieri sera dalle zone devastate dalla tremenda catastrofe sismica. Ho assistito a degli spettacoli che mai dimenticherò. Interi paesi rasi al suolo, la disperazione poi dei sopravvissuti vivrà nel mio animo. Sono arrivato in quei paesi subito dopo la notizia che mi è giunta a Roma della catastrofe, sono partito ieri sera.

Ebbene, a distanza di 48 ore non erano ancora giunti in quei paesi gli aiuti necessari. È vero, io sono stato avvicinato dagli abitanti delle zone terremotate che mi hanno manifestato la loro disperazione e il loro dolore, ma anche la loro rabbia. Non è vero, come ha scritto qualcuno che si sono scagliati contro di me, anzi, io sono stato circondato da affetto e comprensione umana. Ma questo non conta. Quello che ho potuto constatare è che non vi sono stati i soccorsi immediati che avrebbero dovuto esserci. Ancora dalle macerie si levavano gemiti, grida di disperazione di sepolti vivi. E i superstiti presi di rabbia mi dicevano: "Ma noi non abbiamo gli attrezzi necessari per poter salvare questi nostri congiunti, liberarli dalle macerie".

Io ricordo anche questa scena: una bambina mi si è avvicinata disperata, mi si è gettata al collo e mi ha detto piangendo che aveva perduto sua madre, suo padre e i suoi fratelli. Una donna disperata e piangente che mi ha detto "ho perduto mio marito e i miei figli". E i superstiti che lì vagavano fra queste rovine, impotenti a recare aiuto a coloro che sotto le rovine ancora vi erano. Ebbene, io allora, in quel momento, mi sono chiesto come mi chiedo adesso, questo. Nel 1970 in Parlamento furono votate leggi riguardanti le calamità naturali. Vengo a sapere adesso che non sono stati attuati i regolamenti di esecuzione di queste leggi. E mi chiedo: se questi centri di soccorso immediati sono stati istituiti, perché non hanno funzionato? Perché a distanza di 48 ore non si è fatta sentire la loro presenza in queste zone devastate?

Non bastano adesso. Vi è anche questo episodio che devo ricordare, che mette in evidenza la mancanza di aiuti immediati. Cittadini superstiti di un paese dell'Irpinia mi hanno avvicinato e mi hanno detto: "Vede, i soldati ed i carabinieri che si stanno prodigando in un modo ammirevole e commovente per aiutarci, oggi ci hanno dato la loro razione di viveri perché noi non abbiamo di che mangiare". Non erano arrivate a quelle popolazioni razioni di viveri. Quindi questi centri di soccorso immediato, se sono stati fatti, ripeto, non hanno funzionato. Vi sono state delle mancanze gravi, non vi è dubbio, e quindi chi ha mancato deve essere colpito, come è stato colpito il prefetto di Avellino, che è stato rimosso giustamente dalla sua carica.

Adesso non si può pensare soltanto ad inviare tende in quelle zone. Sta piovendo, si avvicina l'inverno, e con l'inverno il freddo. E quindi è assurdo pensare di ricoverarli, pensare di far passare l'inverno ai superstiti sotto queste tende. Bisogna pensare a ricoverarli in alloggi questi superstiti. E poi bisogna pensare a una casa per loro. Su questo punto io voglio soffermarmi, sia pure brevemente. Non deve ripetersi quello che è avvenuto nel Belice. Io ricordo che sono andato in visita in Sicilia. Ed a Palermo venne il parroco di Santa Ninfa con i suoi concittadini a lamentare questo: chea distanza di 13 anni nel Belice non sono state ancora costruite le case promesse. I terremotati vivono ancora in baracche: eppure allora fu stanziato il denaro necessario. Le somme necessarie furono stanziate. 

Mi chiedo: dove è andato a finire questo denaro? Chi è che ha speculato su questa disgrazia del Belice? E se vi è qualcuno che ha speculato, io chiedo: costui è in carcere, come dovrebbe essere in carcere? Perché l'infamia maggiore, per me, è quella di speculare sulle disgrazie altrui.

Quindi,non si ripeta, per carità, quanto è avvenuto nel Belice, perché sarebbe un affronto non solo alle vittime di questo disastro sismico, ma sarebbe un'offesa che toccherebbe la coscienza di tutti gli italiani, della nazione intera e della mia prima di tutto. Quindi si provveda seriamente, si veda di dare a costoro al più presto, a tutte le famiglie, una casa. Io ho assistito anche a questo spettacolo. Degli emigranti che erano arrivati dalla Germania e dalla Svizzera e con i loro risparmi si erano costruiti una casa, li ho visti piangere dinanzi alle rovine di queste loro case. Ed allora: non vi è bisogno di nuove leggi, la legge esiste. Ecco perché io ho rinunciato ad inviare, come era mio proposito in un primo momento, un messaggio al parlamento.

Si applichi questa legge e si dia vita a questi regolamenti di esecuzione, e si cerchi subito di portare soccorsi ai superstiti e di ricoverarli non in tende ma in alloggi dove possano passare l'inverno e attendere che sia risolta la loro situazione. Perché un appello voglio rivolgere a voi, italiane e italiani, senza retorica, un appello che sorge dal mio cuore, di un uomo che ha assistito a tante tragedie, a degli spettacoli, che mai dimenticherà, di dolore e di disperazione in quei paesi. A tutte le italiane e gli italiani: qui non c'entra la politica, qui c'entra la solidarietà umana, tutte le italiane e gli italiani devono mobilitarsi per andare in aiuto a questi fratelli colpiti da questa nuova sciagura.

Perché, credetemi, il modo migliore di ricordare i morti è quello di pensare ai vivi
".

su: https://www.ottopagine.it/amp/200481/il-drammatico-j-accuse-di-pertini-dopo-il-terremoto-in-irpinia.shtml
23 novembre 2019

23 novembre 1980.

biacchesi
di Daniele Biacchessi
 
E’ una fredda domenica come tante. Le famiglie italiane mangiano e guardano il telegiornale: le notizie della giornata, la politica, la cronaca, gli esteri, lo sport. Il flusso di notizie viene interrotto da una notizia che giunge da lontano.
Un potente terremoto del 6,9 rade al suolo una vasta zona del Sud, tra la Campania e la Basilicata. Si sbriciolano uno dopo l’altro Laviano, Lioni, Sant’Angelo de Lombardi, Calabritto, Teora, Conza della Campania, Balvano. Lesioni e crolli si verificano a Napoli, Avellino, Potenza, in ogni luogo.
Piccoli borghi antichi, poco prima erano cosa viva, fatti di persone e speranze, sogni e realtà, il 23 novembre sera non esistono più. Spariti, volatilizzati, sprofondati a valle dalle colline. Un inferno di detriti e macerie.
280.000 sfollati, 8.848 feriti e 2.914 morti.
L’entità drammatica del sisma non viene subito valutata. Il telegiornale parla di una generica «scossa di terremoto in Campania». Solo a notte inoltrata emerge la più vasta entità. E in particolare solo nella tarda mattina del 24 novembre vengono rilevate le reali dimensioni del disastro. Uno dopo l’altro si aggiungono i nomi dei comuni colpiti, interi nuclei urbani sono cancellati, decine e decine fortemente danneggiati.
Allora ero redattore a Radio Regione, storica radio privata d’informazione di Milano. Decisi con l’amico e fotografo Marco Deidda di affrontare il lungo viaggio verso l’Irpinia. La protezione Civile aveva comunicato che chiunque fosse intenzionato a partire per le zone terremotate doveva essere autosufficiente. Partimmo con una 127 bianca. Quella macchina diventò ben presto la nostra casa per dieci giorni. Ci eravamo portati tutto, viveri compresi, soprattutto un sacchetto di plastica pieno di gettoni telefonici di rame, quelli vecchi, con la scalanatura in mezzo.
Non avevamo i mezzi della Rai. Allora noi inviati delle radio private d’informazione utilizzavamo fantasia, dimostravamo grande spirito di adattamento e gioco di squadra. Quando si riusciva a trovare una cabina di fortuna chiamavamo la redazione centrale. Da lontano, le linee sporche della Sip diventavano ancora più gracchianti e il gettone interrompeva per un micro secondo la comunicazione. Ma quelle cronache erano straordinarie.
Arrivammo il 24 novembre sera a Buccino. Una strada, una decina di morti sulle strade, persone abbandonate da Dio e dagli uomini, senza più niente, senza casa. Alcuni vagavano come zombie con le ciabatte e il pigiama dalla sera prima. Solo un radioamatore lanciava i suoi disperati appelli dall’etere che vennero ascoltati solo molte ore dopo il disastro.
Marco Deidda scattava fotografie con una Nikon senza motore, decine, centinaia di scatti:le mani, gli occhi, i volti delle persone, i calcinacci, gli effetti personali lasciati abbandonati in fretta, i ricordi, i quadri di famiglia. E io registravo lamenti, suoni, voci della disperazione, interviste. Mi ponevo domande e dubbi. Per giorni camminammo tra paesi distrutti, vecchi soli davanti a ciò che restava delle loro abitazioni, cani e animali abbandonati, tra un’odore forte e irrespirabile di morte e le urla di dolore dei familiari delle vittime.
Ricordo alcune scene che hanno accompagnato la mia memoria di cronista, nel corso del tempo.
Decine di bare allineate sul sagrato della chiesa di Sant’Angelo de Lombardi, nel silenzio e nell’incredulità generale.
Il paese di Laviano per centinaia di anni in collina sprofondato a valle.
Le continue e ripetute scosse di assestamento, certe volte perfino più forti di quella devastante del 23 novembre.
Il primo e il secondo crollo della scuola di Sant’Angelo de Lombardi.
Le lunghe code lungo le strade e autostrade di italiane di mezzi che trasportavano le case prefabbricate per i terremotati, gestite in modo clientelare.
L'assalto al forno di Eboli da parte della popolazione inferocita contro le istituzioni che distribuivano viveri seguendo il “modello Lauro”.
Il racket dei vestiti usati smistati dalla Protezione Civile a Potenza e Avellino.
Le vergognose menzogne di sindaci, assessori, ministri, sottosegretari, funzionari dello Stato, alle varie conferenze stampa ascoltate a Napoli, Avellino, Potenza.
Ma ricordo anche le parole chiare e precise dell’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini, un uomo per bene.
“Non vi sono stati i soccorsi immediati che avrebbero dovuto esserci. Ancora dalle macerie si levavano gemiti, grida di disperazione di sepolti vivi”
A quarant'anni dal terremoto dell’Irpinia le parole di Pertini suonano da monito, a futura memoria